Le storie superbe . SUPERBIA
Lachesi – puntata II
In 20 Novembre 2016 da Chiara MenardoLa prima puntata la trovate qui
II
Sembra infinito e rotondo: un enorme piatto, la struttura che regge le torte di nozze, una palafitta girevole come una clessidra; sospesa e fluttuante, colonne in alto e in basso. Fili tesi dalle profondità senza inizio all’infinito del cielo e viceversa, e poi altri tra un pilastro e un altro e oltre, di traverso, tesi come corde di un violino o morbidi come altalene, appena accennati, corti come un pelo di gatto tagliato oppure lunghi come tutti i fiumi della Terra: non c’è inizio, né fine.
Penzolano e si muovono: dall’alto, dal basso, dal nulla, fusi e confusi con altri. Intrecci e grovigli: una foresta di liane di corda, metallo, aria, erba, bava di lumaca e tela di ragno. D’acqua e di terra, sono d’oro e di latte, farina di tapioca e diamanti, di tutte le sostanze del mondo e di altri mondi che non conosco, che nessuno conosce né conoscerà mai, sono di fuoco. Mi intrappolano, si strusciano contro le guance, si intrecciano con i capelli e sembrano vivi: edere che mi credono un nuovo, inesplorato muro cui attaccarsi per succhiare la solidità di un tronco di cui sono prive.
Sto soffocando: le corde mi studiano, si avvicinano al collo.
Morirò stretta in milioni di destini non miei senza aggiustarne nessuno; andranno a seccare e sparire perché io avrò fallito.
Sarà stata solo colpa mia: è tutto troppo grande per me, come posso?
Sto esitando, sto sbagliando, non dovrei essere qui. Sono un’intrusione nell’ordine del cosmo impazzito, come abbiamo osato? Maestro, mi hai mentito fin dall’inizio, tu e le tue favole sul Destino, sull’Ordine, sulla Felicità: come hai potuto?
Funi, cavi possenti, fili di seta, intorno a me che nemmeno so se sono ancora il mio corpo stringono ancora, sempre di più.
La cantilena continua: “Non paura, timore, Caro, Cara, non paura, timore e rispetto, ricorda.”
“Lasciali entrare, guardare, esplorare, lasciali fare”, mi sussurro, incorporea e disperatamente di carne: quello che sono, qualsiasi cosa io sia in questo preciso momento, spalanca le braccia con un sospiro profondo, apre gli occhi e la bocca. I fili, le corde e le funi entrano ed escono dalla mia consistenza, senza dolore. Solo, un lieve solletico.
“Tagliare e riunire, sciogliere i nodi sbagliati”.
Intorno a me solo nodi e intrichi: quale sarà quello giusto? Quale sarà il giusto intreccio sbagliato? Quasi mi vedo sorridere. Mi irrigidisco.
Il dubbio paralizza, frammenti di specchio con mille inclinazioni diverse, come sposto lo sguardo cambia la prospettiva.
Allora non c’è Verità: tutto dipende dal punto su cui appoggio gli occhi, è tutto casuale. Forse, posso solo star ferma e lasciare che sia perché – se chino appena la testa -, tra mille riflessi che urlano “è giusto” ne può comparire uno, uno solo – tra le infinite sfaccettature -, che sospira “potrebbe essere la scelta sbagliata” e avere ragione: dunque, che posso fare se non fermarmi, pietrificata? Chi sono io per disfare ciò che già è fatto? Ma, d’altronde, chi sono io per non farlo?
Non tutto ciò che è già scritto è privo di errori di ortografia. Affiora, come un sottomarino dalle profondità dell’oceano:
“Do I dare/Disturb the Universe?
In a minute there is time/for decisions and revisions/That a minute will reverse”.
Eliot, capisco perché ti amo dai visceri: quel verso mi si è conficcato dentro, chiodo e domanda che ha bisogno, ora, di una risposta. Questo è il momento in cui dovevo pensarti, l’istante preciso. Sì, oso. Perché posso, perché voglio. Perché, in qualche modo, devo. In fondo è così semplice, penso.
Tutti possiamo disturbare l’universo: siamo universo, mondo, stella e galassia, granello di sale e molecola, daino e ameba.
Sono il cosmo e osservo i fili e i nodi, i filamenti sottili come le lamelle di un fungo che si stendono, sterminati, dentro e fuori di me. Osservo i nodi, passandovi sopra lo sguardo, senza fissarne nessuno, come un faro di notte.
Dio, quanto lontano riesco a guardare: fino alla fine dell’Infinito. Io, che di solito non vedo a tre metri senza gli occhiali. In quella foresta invasa di luce e di intrichi, un punto più scuro. È piccolo e insignificante: mi era sfuggito, ma ora lo vedo. E, nel momento in cui i miei occhi gli si posano sopra, ecco che tutto risucchia e assorbe, diventa più grande e compatto.
Lui sa che l’ho trovato.
Guscio di tellina sepolto tra le dune del deserto, ti ho trovato.
Esplode la luce, mi acceca, esplode il risucchio del nero che si espande, la stasi combatte. Il disordine, l’errore che non avrebbe dovuto essere, che deve cessare: lo guardo mentre cerca di conservare sé stesso diventando roccia e fanghiglia.
Sono lì, sopra, accanto, sotto, intorno, dentro e fuori quel nero: sono io l’Errore e il Rimedio, il tutto e il nulla, il fuoco sul braciere possente che brilla sulla cima del monte più alto e il fondo del fondo del pozzo più buio, mai raggiunto dalla luce del sole.
Ciò che È si ribella a Ciò che Deve Essere.
“Adesso, Bambina Bambino, adesso è il momento: esita e agisci, adesso.”
Rimbomba ovunque il pensiero di carta vetrata e velluto del Maestro con le mappe del cosmo sul viso.
Stringo le mani, le intreccio tra loro, al centro di quel buio senza fine né inizio. Trattengono il nulla, i capi di due corde robuste. Poi, lentamente, le apro: come quando catturavo i grilli nei prati, d’estate, e chiudevo i palmi a forma di orcio per non farli scappare. Delicatamente sollevavo un dito dopo l’altro per guardare un’ultima volta quella scheggia di verde dagli occhi grandi e le zampe lunghe, spiccare il balzo verso il suo posto, tra i fili d’erba e i fiori gialli. Piano, lenta, con calma. Salta grillo, ora vai.
Destino, intrico, andrà tutto bene. Salta, ora vai anche tu: un’altra strada appartiene a quei capi, non ciò che è stato fino ad ora.
Andrà tutto bene, corde annodate per sbaglio: lottate, vi dimenate, ma ciò che è storto ora diventerà dritto, anche per voi. Tranquille, funi finalmente sciolte e libere di intrecciarsi con altri profumi ed essenze. Va tutto bene, non dovete avere paura.
È finito il buio, ormai. Con un tremito, la luce ritorna piena e diffusa, non c’è più angolo buio in quest’infinito rotondo.
Osservo i due lembi di serpente ormai sciolti allontanarsi lentamente, come foglie sulla superficie di un lago appena mosso da una brezza leggera. Uno dei due si avvicina dolcemente ad un altro, fino ad allora straniero alla scena: è esile e azzurro come un piccolo fiore di prato. Tremo.
“Sei stata brava, Bambina. Ricorda e dimentica, tutto è tornato al suo posto. Sei stata brava.”
Una brezza, un’increspatura, un risucchio.
È come emergere da un’anestesia: intontita riprendo ad avere due braccia, due gambe, un busto e una testa di ossa e di carne.
Avverto intorno il calore del sole, il rumore di traffico, l’odore di smog e fast-food della mia città.
Scuoto la testa solo un poco, sento me stessa camminare su un paio di tacchi, una borsa a tracolla sulla spalla e una valigetta tra le mani.
“Da adesso in poi tutto andrà come è scritto, Bambina. Sorridi, avrai la tua ricompensa. Arrivederci, Cara. Non paura, timore e rispetto, ricorda. E occhi grandi. Perché tu sei grande, la più grande. Ciascuno di noi è il più grande, per questo siamo convinti di essere piccoli e insignificanti.”
La sensazione di un bacio leggero sulla guancia, il profumo di incenso di sandalo e libri. Passa e va.
“Dottoressa, buongiorno, mi scusi il ritardo!”
Un uomo alto, con gli occhi che sorridono e la voce di velluto e di carta vetrata mi viene incontro con la mano tesa.
Gli stringo la mano: due fili si annodano, stretti. Un lievissimo scatto, l’incresparsi dell’aria, luce che avvampa un istante per affievolirsi e tornare normale. Il Destino festeggia il proprio ritrovo, forse.
Il sole è più intenso, la brezza più dolce: anche lo scoppio di risa in un bar sotto i portici nella via pavimentata di sassi, e i clacson che suonano a domandare la strada, sembrano in pace.
È tutto in ordine, ora.
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