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Lâ sénâ di sèt sén, ovvero la cena delle sette cene
In 20 Dicembre 2020 da Viviana GabriniIn Oltrepò Pavese esiste un momento dell’anno in cui sacro e profano si fondono e la simbologia e i riti cristiani si uniscono alle loro radici pagane: succede la sera del 23 dicembre e succede a tavola, dove, fin dal Medio Evo, si consuma lâ sénâ di sèt sén ovvero la cena delle sette cene.
Tradizione antichissima e contadina, la cena mette in tavola cibi semplici e rigorosamente di magro: è l’antivigilia di Natale, ci si prepara al digiuno della vigilia (il cenone del 24 è una novità degli ultimi anni che abbiamo importato dal sud d’Italia) per poi concedersi piatti ricchi e carni nel giorno di Natale. Un evento, fra le popolazioni rurali dei secoli scorsi.
Già il numero delle portate ci riconduce a una dimensione magica e spirituale: sette sono i vizi capitali, le virtù teologali, i doni dello Spirito Santo e i sacramenti. Sette erano, per gli antichi, i pianeti e sette i rispettivi cieli. E ancora: i colori dell’arcobaleno, i giorni della creazione, le note musicali.
Sette, per molte culture antiche è il numero della completezza.
E veniamo alle sette portate: insâlàtâ âd bidràv, püvrón e inciùd (insalata di barbabietole, peperoni e acciughe), turtâ d’sücâ (torta di zucca), sigùl cul pen (cipolle ripiene), fas dâ Bâmbén cun l’âjà (fasce del Bambino con l’agliata), mârlüs cun l’üvâtâ (merluzzo con l’uvetta), furmâgiâtâ cun mustàrdâ (formaggetta con mostarda), per giâsö cöt cun i câstégn (pere ghiacciolo cotte con le castagne).
La scelta dei prodotti, poveri e tipici di queste zone rurali, non è casuale.
Con il suo colore giallo, la zucca ricorda la forza e l’energia del sole. In data che varia fra il 20 e il 21 di dicembre, infatti, cade il solstizio d’inverno, per i pagani giorno della festa del sol invictus. Il culto del sole invitto nasce in oriente migliaia di anni fa, quando in Siria e in Egitto i sacerdoti, ritiratisi nei templi, uscivano a mezzanotte annunciando che la Vergine aveva partorito il Sole, raffigurato come un neonato.
Aglio e cipolle invece sono considerati cibi in grado di proteggere dai malefici delle streghe e di allontanare gli spiriti maligni. Nell’antico Egitto l’aglio era considerato sacro mentre per i greci l’aglio era una pianta degli inferi ed era dedicato a Ecate, la dea degli spiriti che accompagnava i defunti nel regno dei morti. Il potere dell’aglio ci viene ricordato anche da Omero nell’Odissea, dove il dio Hermes esorta Odisseo a difendersi con l’aglio dai sortilegi della maga Circe.
Ricche di simbologie sono anche i fas dâ Bâmbén cun l’âjà (fasce del Bambino con l’agliata), ovvero lasagnette che rappresentano le fasce di Gesù Bambino. Il condimento, l’agliata, è a base di aglio e noci e le noci stanno a significare ricchezza e fecondità.
Non a caso, nei tempi passati, sugli sposi usava lanciare noci e solo successivamente si farà ricorso al meno “pericoloso” riso.
La tradizione dei fas nel corso dei secoli si è allargata anche al giorno della vigilia e in molte case dell’Oltrepò, per il pranzo del 24 usa consumare queste particolari lasagnette ricce con un sugo bianco di funghi.
Simbolo di ricchezza e abbondanza è anche l’uvetta cucinata con il merluzzo, come ci ricorda un’altra usanza di molte famiglie contadine oltrepadane, che il primo giorno dell’anno mettevano in tavola uva rigorosamente bianca (a fine stagione era d’uso appendere in luogo fresco, buio e asciutto i grappoli di alcune qualità di uva bianca e farli appassire per consumarli nel corso dell’inverno). Mangiarne dodici chicchi era il miglior sistema per garantirsi dodici mesi di prosperità.
E infine, pere ghiacciolo cotte con la castagne: la forma della pera ricorda il ventre femminile e diventa così simbolo di fertilità.
Non stupisca la presenza di due pesci di mare fra i piatti tradizionali delle campagne oltrepadane: la via del sale infatti partiva da Genova, passava per Varzi e arrivava a Pavia e il consumo di pesci che potevano essere conservati sotto sale era diffusissimo in tutto il nostro territorio.
Piccola particolarità: anticamente, a inizio cena il capofamiglia metteva in tavola una micca (pane tipico oltrepadano) in cui infilava un bastoncino. A fine pasto la micca veniva tagliata in più pezzi: alcuni erano distribuiti ai commensali, gli altri venivano conservati fino al giorno di Sant’Antonio Abate (17 gennaio) e dati agli animali della stalla. Quel pane avrebbe garantito buona salute a tutti quanti, bipedi e quadrupedi.
Le prime testimonianze scritte di questa cena tradizionale, ancora in uso nell”800, ce la dà il vogherese Alessandro Maragliano, linguista, giornalista, pittore e poeta vissuto fra il 1850 e il 1943.
Maragliano riporta la ricetta dell’agliata che compare nel ricettario di Martino da Como intitolato Libro de arte coquinaria.
Martino da Como visse fra la fine del Trecento e l’ultimo quarto del Quattrocento ed è quasi sicuro che apprese l’arte della cucina in un convento, visto l’uso del Padrenostro e di altre preghiere per misurare i tempi di cottura dei cibi.
La tradizione della Cena delle sette cene andò via via perdendosi nel corso dei decenni per venire riportata ai giusti fasti una trentina di anni fa da Piera Spalla Selvatico, nota ristoratrice di Rivanazzano e da sempre attenta alla valorizzazione delle tradizioni culinarie locali.
Nel 2012 il comune di Rivanazzano ha insignito la cena della De.Co., ovvero la denominazione comunale.
Anche lo scrittore e poeta vogherese Angelo Vicini ha dedicato uno studio alla cena dando alle stampe il ricco volumetto Lâ sénâ di sèt sén. La cena delle sette cene nel rispetto delle tradizioni e simbologie del Natale, edito da Libreria Ticinum di Voghera.
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