Io e il dottor Zeta, la ragazza Ics ed io
Ics #7
In 12 Gennaio 2023 da Debora BorgognoniLo osservo per la prima volta. Osservo i suoi gesti e il suo corpo, cerco di intuire i suoi gusti, dagli abiti agli accessori. Dopo la sorpresa della moto, credo di doverlo giudicare daccapo. Non è brutto giudicare le persone. Il giudizio ti dà la possibilità di entrare in loro, di capire, di scavare. È un rapporto di reciprocità. Capendo loro, giudichi te stesso. Capendo te stesso, hai il diritto di giudicare loro.
Lui non mi guarda nemmeno. Nemmeno un cenno. Si sfila il casco e scopre la sua testa quasi completamente calva. Rimane ancorato giusto qualche sottile filo castano chiaro che lui chiede al barbiere di non spuntare, perché non si sa mai. Porta il pizzetto. Forse se l’è fatto oggi perché è appena accennato. Appena crescerà, si potrà giudicare il risultato, però in linea di massima gli uomini ricorrono al pizzetto quando devono apparire più sexy: ciò conferma che il pizzetto valorizza un po’ tutti i volti maschili.
Si aggiusta il colletto della camicia che si intravede appena sotto il giubbotto pesante anti-caduta. Indossa l’abito elegante. La sua stazza è più massiccia di quanto ricordo. Mi chiedo addirittura se esistano abiti della sua taglia o se quello che porta se lo sia fatto confezionare su misura. Non riesco a notare altro, è già troppo quello che ho osservato analiticamente. Io tendo a guardare cose inutili e a fissarmi su esse. E poi sono in attesa.
Finalmente mi guarda.
«Mi dispiace per il ritardo. Avrei dovuto chiamarla, ma non avevo il suo numero di cellulare. Al lavoro ho fatto più tardi del dovuto, la lezione si è protratta per… Be’, ad ogni modo», e comincia a balbettare leggermente. «sono contento che mi abbia aspettato».
Sorride, e mi guarda negli occhi per la prima volta. Ha i denti gialli e piccoli ma il suo sorriso mi piace. L’avevo sentito, l’ho provato già la prima volta che ha socchiuso le labbra. Ho saputo, in quel momento, che quella cosa mi piaceva, mi dava un senso di protezione. Di quella cosa mi sono fidata all’istante, inconsciamente e contro ogni mia personalissima regola sulla diffidenza a ogni costo.
Lui non si avvicina. Si tiene a debita distanza come a lasciarmi la scelta delle mosse successive. È lì tranquillo, sapendo che parte con un netto vantaggio rispetto alla sottoscritta. Prima di tutto perché lui sa cosa vuole da questa serata. Sa dove andremo, probabilmente è persino d’accordo con il ristoratore. Sa che una volta sganciato il contante potrà pretendere, e questo lo renderà inconsciamente superiore. È arrivato in moto, e sa di avermi stupita. Ne è orgoglioso, non può nasconderlo, si intravede nella sicurezza ostentata del suo sorriso. E alla fine, ha capito che il suo sorriso mi piace. Ha molti motivi per essere il più forte stasera. E io ne ho altrettanti per desiderare di fuggire.
Voglio fuggire? Voglio essere a casa, su quel divano bianco che non riesco ad ammettere quanto sia scomodo, arrotolata come una canna al plaid verde pisello a guardarmi la serie tv più stupida di Netflix, che però per me è fantastico, tanto da mettere il mi piace sulla pagina di Facebook? Davvero lo voglio? Davvero voglio passare mezz’ora al telefono con Dario, che non si rassegna a essere mollato sette mesi prima del matrimonio, senza un valido motivo e senza una struggente sofferenza da parte mia? Eh, sì, perché la sofferenza è un obbligo dopo dodici anni, invece io non la provo. Perché la responsabilità di queste nozze è qualcosa che va oltre il nostro reale volere. Ci sono i genitori, che hanno speso un sacco di soldi, e gli invitati che ci hanno fatto il regalo, e il ristorante e il prete e il musicista e il fotografo. Caparre, acconti, spese, prenotazioni. Sono un’egoista del cazzo.
«Sono appena arrivata anch’io, guardi, giusto cinque minuti fa. Ma anche meno, sa? Bella la moto. Vedendola, l’altro giorno, non mi sembrava un motociclista».
«Senta, vuole farci un giro?».
«No, no, ho l’abito stretto».
«Certo, è vero, sarebbe un bel problema. Allora la parcheggio e andiamo in metrò».
Mi sento stupida. Ho appena detto il primo no della serata. Alla sua prima domanda, peraltro. Sarebbe stato bello, dottor Zeta, salire in moto con te. Eppure, vedi, la follia è ancora rintanata in quello spicchio di anima lontano dalla traiettoria della mente. È un po’ come i pellerossa. Abitano l’America da sempre, eppure i bianchi li hanno ingabbiati in confini che non servivano a nessuno. Facciamo un passo alla volta, facciamo in modo che io non ne abbia così paura. Cambiami la vita con calma.
«Sì, va bene, andiamo in metrò».
Vorrei dire ancora no e proporre una passeggiata: la metropolitana non mi piace molto. Oppure vorrei cedere le chiavi della mia auto al dottor Zeta e farmi portare dove vuole lui. Però mi impongo di fare come dice e lo seguo.
La fermata è a duecento metri e nel frattempo non parliamo. Mi balza alla mente la domanda che mi sono appena fatta e rispondo che nonostante questa aria pesante e disagevole, io non voglio fuggire. Non voglio cambiare nulla delle decisioni prese in questi due giorni, forse alla leggera, o forse per la prima volta con criterio.
Là sotto, nella pancia di questa città che non ti accoglie col sorriso, che ti scalda solo se ne sei davvero predisposto, io e il dottor Zeta siamo più persi che mai. Il cemento illuminato dai neon mi sembra una lapide senza nome. Adesso arriva, mi dico. Arriva lo scalpellino e si mette su una scaletta a scrivere i nostri nomi, con lettere arrotondate ed eleganti. Poi si gira, ci guarda e ci sorride e dice: Venite, ci siamo. Mi giro dal dottor Zeta e in contemporanea lo fa anche lui. Mi sembra di percepire in lui e nel suo sguardo una fitta angoscia, e forse si sta chiedendo da cosa sia scaturita. Mi guarda negli occhi. È la seconda volta che mi guarda negli occhi, poi continua a vagare con lo sguardo ovunque, esattamente come ogni uomo al mondo.
Il treno arriva. È la linea verde, e farà sei fermate in una ventina di minuti. Ci lascerà a Lanza e noi scenderemo. Arriveremo alle diciannove passate, quindi faremo una camminata di almeno mezzo chilometro, che percorreremo lentamente perché nel frattempo chiacchiereremo per la prima volta. Saremo al ristorante poco prima delle venti, nell’ora in cui i locali si riempiono. Il dottor Zeta deve avere programmato tutto in questo modo.
Invece ogni cosa comincia a prendere la propria logica sconnessa.
Il treno è vuoto. Io e il dottor Zeta non abbiamo mai visto un vagone della metropolitana completamente vuoto. Ce lo diciamo sorridendo con isteria. Il dottor Zeta è in piedi, al centro del vagone e si tiene all’asta di metallo sopra la sua testa, mentre il casco è appoggiato insieme al giubbotto da motociclista sopra uno dei sedili. Nemmeno io mi siedo, nonostante ci siano tutti i posti disponibili, perché lui sta in piedi. Così mi metto distante ma non troppo, pronta per scendere, con le spalle all’uscita. Il treno parte prima di chiudere le porte, senza avvisare con l’usuale segnale acustico.
Sto per cadere all’indietro, sto per cadere nel vuoto, sto per morire. Aiuto… Il dottor Zeta mi afferra per un braccio e mi spinge verso il suo corpo. Cadiamo, io sopra di lui. Il dottor Zeta deve essersi fatto davvero male, ma cerca di non lamentarsi. Non ha ancora ansimato da quando ci siamo incontrati. Lo guardo con stupore prima di rialzarmi. Lo aiuto.
«Grazie. Io… Probabilmente sarei caduta di sotto. Non voglio nemmeno pensarci. È stato incredibilmente veloce ad afferrarmi così. Ma che strano, tutto è strano».
«Sono stupito anch’io, signorina. Sono anni che non prendo la metrò ma non ricordo di averla mai vista in questo stato».
«Magari c’è uno sciopero, chissà». E mi guardo intorno imbarazzata. Faccio finta di non sentire che il dottor Zeta comincia ad ansimare sommessamente. Credo sia dolorante. Sono anni che non prendi la metrò? Ma vivi a Milano o mi stai raccontando solo un mucchio di balle? Come andrà a finire questa cosa? E poi, dottor Zeta, non mi hai ancora dato i soldi. Oltretutto mi stai alla larga. Avevi l’occasione prima… Ma forse era tutta una messa in scena, hai pagato qualcuno per far sgombrare la metrò e per fare quel giochino pericoloso delle porte che rimangono aperte, invece sfiga vuole che ti sei fatto male, così non ne hai potuto approfittare. Ma chi, sei dottor Zeta? Uno dei servizi segreti?
Poso ancora lo sguardo su di lui. Voglio parlare, in modo da non sentire quei suoi ansimi di dolore continui. Lui si tiene con le mani la schiena. Ci credo, mi dico, grasso com’è non può non avere problemi di schiena. «Posso farle una domanda?».
Mi guarda perplesso. Forse mi sta implorando con tutta la forza del pensiero di non fargli quella domanda. Ma io devo chiederti un’altra cosa, stai tranquillo. Annuisce.
«Qualche giorno fa mi ha chiamata sul telefono di casa dicendomi che voleva visionare alcune mie opere, dopo averle notate sul mio sito web. Com’è possibile che in cinque minuti mi abbia lasciato un assegno di quindicimila euro? Mi dica la verità: le aveva davvero viste sul mio sito? Sa, perché io le espongo spesso qui a Milano o nella mia città, magari tra i tanti visitatori c’era anche lei e non vuole dirmelo, ma io ne sarei contenta».
«A cena le dirò tutto. Il suo sito web è comunque ben fatto».
Adesso ho paura. Perché gli ho fatto quella domanda? Perché non mi sono accontentata di quella frottola ben congegnata, di quell’assegno sostanzioso che ho già provveduto a depositare, di tutta questa fortuna cieca? Prendo coraggio. Con lui devo ammettere di averne poco.
«La smetta. Smetta di tenermi sulle spine. Non verrò a cena con lei se non mi dice cosa vuole da me e perché è venuto a casa mia. Per quindicimila euro le ho venduto diciassette dipinti. Per quanto mi riguarda lo scambio è equo, se li avessi venduti separatamente avrei preso anche di più. Non le voglio essere grata per averne acquistati diciassette insieme, questa è stata una sua decisione. Io non sapevo nemmeno che volesse comprare. La nostra transazione d’affari si è conclusa nel momento in cui ho depositato l’assegno. Adesso non abbiamo più niente da dirci. Tanto più che mi ha offerto mille euro per una cosa scandalosa, e comunque non ho ancora visto i soldi. Quindi, se lei non parla chiaro, io faccio dietro front e tanti saluti, dottor Zeta».
Sorride. Mi mette rabbia ma cerco di stare calma. Non sono calma, è ovvio. Credo di essermela cavata bene, ma alla fine la voce tremava e mi sono ingozzata due volte. Ho mandato giù la saliva per tutte e due le volte e ho ricominciato ancora più insicura. Forse per questo ride. Sa che lo temo. Sa che lo temo perché ne sono attratta.
«Perché è venuta allora?». Non ha ancora finito la frase, che già fruga nella tasca. Tira fuori una busta bianca con la finestrella, di quelle che si usano per le lettere commerciali. Si intravedono i soldi, il rosso dei cinquanta euro.
«Tenga. Non trovavo il momento giusto per darglieli. Non mi piace dare soldi così, per questo volevo farle un bonifico; le avrei portato la copia del versamento, se la sua banca non lo vedeva ancora. Comunque capisco che lei preferisca il contante. Mi dispiace di averla fatta innervosire».
Lo guardo. Guardo la busta. Non oso contarli. Quasi non oso prenderli. Però lui sta lì, in mezzo a questo vagone fantasma, dondolante, nel fragore dell’aria ammazzata dalla velocità, con il braccio teso verso di me e quella busta che danza insieme alle rotaie. La afferro e la infilo goffamente nella borsa.
«Grazie».
«Allora non è proprio conclusa la nostra transazione d’affari».
Già, prendendo la busta non ci avevo pensato. Abbasso lo sguardo. Gli occhi mi portano sulle sue mani. Penso che con quelle mani mi toccherà questa sera e le voglio conoscere meglio prima che succeda. Ha mani curate, dalle dita lunghe, pelose sul dorso ma soprattutto sulle falangi. Le muove involontariamente, quando parla, quando cammina. Le muove con grazia, come se stesse suonando. Penso che il dottor Zeta sia un pianista. Dovrei chiederglielo. Ma rimando. Le sue mani non hanno nulla a che vedere col suo corpo impacciato ed esageratamente robusto. Le sue mani sono sicure, non mostrano timidezza, tranne quando lui è troppo al centro dell’attenzione e le fa tremare leggermente.
Ora mi guarda. Io lo intravedo ma ho gli occhi bassi, e li sposto dalle sue mani al linoleum sporco e consumato di questo treno. Sento il suo sguardo. Vedo la sua stazza e mi si para davanti il suo viso. Lo riconosco nel pensiero. Anzi, adesso, nei miei ricordi, riesco a scrutarlo ancora meglio. Posso soffermarmi su quei tratti senza che lui mi faccia sentire inopportuna. Vedo la pelle liscia che evidenzia la forte presenza di barba per l’alone grigio lasciato dopo la rasatura. Le guance rosse e paffute. Il naso lungo e dritto con le narici larghe. Vedo gli occhi verdi, incavati e piuttosto piccoli nel complesso del suo viso. Il suo mento squadrato con una fossetta appena accennata. Penso che se fosse magro il suo aspetto non sarebbe comunque migliore; anzi, forse ne risulterebbe alterato negativamente. Oggi so che la sua pelle non è unta. Strano. Appare liscia e omogenea. E sento il suo profumo. È leggero ma sposta l’aria e mi arriva a tratti. Sa di fresco.
L’altro giorno, quando si è presentato alla mia porta, il dottor Zeta era un altro uomo. Quello che ho osservato di lui era un’esasperazione di lui. Era ciò che di lui volevo credere, ciò che volevo sentire. Disgusto. Mi faceva comodo per rimanere tra le braccia sicure e fiacche della normalità. Ho sempre considerato della gente il lato peggiore. Altrimenti sarei spesso stata io peggiore. Il dottor Zeta ha un viso irregolare, brutto e senza una vera personalità, ha un corpo massiccio e inelegante, eppure mi chiedo quante persone di mia conoscenza siano davvero belle, siano da considerarsi migliori del dottor Zeta sotto tutti i punti di vista.
Tra tutti gli uomini che ho avuto non posso dire ci fossero stati dei modelli, Dario compreso. C’è stato il magro, il palestrato, il simpatico, il colto, l’intraprendente, l’artista. Nessuno aveva due o tre di queste caratteristiche insieme; una bastava. Dario è il colto. Il suo fisico è giovane eppure molle, il suo viso sfuggente e scontato, i suoi capelli troppo folti e spessi, tanto da rimanere ritti come fil di ferro. Mi piaceva? No. Non mi è mai piaciuto fisicamente. Le persone belle sono una rarità, e in questo mondo di razze brutte si è imparato a dare più valore al resto.
Il dottor Zeta ha qualcosa. Non ho idea di cosa sia, ma so che sono pronta a scoprirlo, a impararlo, e non per mille euro, lo faccio per me, per la mia sete, per dare due belle pile nuove alla mia energia.
Mi decido a guardarlo. Lui sobbalza un istante al mio scatto, ma si impone di non distogliere lo sguardo. Ha almeno vent’anni più di me, in fondo; se vuole, sa come fare con una donna. Ci guardiamo per un po’. A un certo punto, le sue labbra si muovono impercettibilmente. Sta per parlare. Ma non parla. Allora lui guarda a destra e io a sinistra. Vorrei abbracciarlo. Mi piace abbracciare le persone. Lo faccio spesso con gli uomini. E ogni volta che capita, mi accorgo di essere considerata una pazza o una donna in cerca di sesso. Gli uomini reagiscono così, sono cacciatori. Anche quando non ci stanno provando, lo sono potenzialmente. Persino se non sei il loro tipo, pensano a come e quando riuscirti a scopare. Non è cattiveria o mancanza di sensibilità. È la loro indole, è un istinto. E io ho imparato a servimene e a scacciarlo quando fa più comodo a me.
Scendiamo velocemente a Lanza. Non so perché guardiamo il treno ripartire. Io penso che su quel treno abbiamo lasciato qualcosa. Ecco perché io lo guardo. Forse lo sta pensando anche lui. Vorrei dirglielo. Vorrei dire che abbiamo lasciato un desiderio, celato anche a noi stessi. Abbiamo lasciato la nostra illusione, che dopo la disillusione non credevamo più di incontrare. E invece era lì. Se vogliamo può essere anche qui. Dottor Zeta, tu lo vuoi? Con questo pacco di cinquanta euro cosa volevi comprare di me? Eppure, pian piano credo che sia stato tu a vendermi qualcosa. Credo sia stato tu a perdere una parte per consegnarla a me definitivamente.
Andiamo, signorina?». Certo, andiamo. Andiamo a bere un po’ di vino e mangiare cibi piccanti. Andiamo a fare l’amore per soldi in una camera d’albergo. Anch’io ne ho voglia, in fondo, e tu l’hai capito. Mi piace la tua maturità, che tu lasci intravedere appena dietro la palese timidezza. Ma ciò che è palese crollerà facilmente, perché io stasera voglio cogliere le ombre. Mi piace quello che col tempo potrai insegnarmi. Sono una scultura che non ha ancora incontrato il suo scalpellino. Voglio essere la tua creazione. Sia quel che sia. «Andiamo, dottor Zeta».
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