
Io e il dottor Zeta, la ragazza Ics ed io
Zeta #10
In 2 Febbraio 2023 da Debora BorgognoniC’è una grande differenza tra di noi. Lei trattiene le sue emozioni, io cerco di combattere la mia apatia. Il risultato può essere complementare con un leggero sforzo in più da parte di entrambi, ma il fatto di partire da poli opposti ci renderà sempre due persone opposte.
La ragazza ics ha la stoffa dell’artista. Trattiene persino questo. Trattiene persino l’arte.
Io credevo di esserlo, un artista; invece insegno, solo perché non ho la minima speranza di diventarlo. Non perché mia madre era insegnante, non perché me l’ha consigliato. A Serena avrei dovuto rispondere questo. Le avrei dovuto dire che l’insegnamento è uno dei troppi compromessi della mia vita, è un nobilitare qualcosa che sa di muffa, è calmare la mia presunzione irreversibile.
Sapevo perché mi aveva fatto quella domanda. Sapevo tutto, facevo solo finta di non sapere, come un continuo mentire a me stesso, mettere strati e strati di ipocrisia su quest’uomo già grasso, che quindi, per logica, si sarebbe solo dovuto alleggerire.
I suoi capelli, il suo sguardo, la sua voce dosata. Serena si dava al mondo senza esserne consapevole, e poi sfuggiva quando il mondo la pretendeva. La sua bellezza era così.
All’inizio ho cercato nella ragazza ics un richiamo a Serena, ma adesso è un sollievo scoprire che non hanno nulla in comune. Guarire è anche un po’ questo. È sganciarsi dal ricordo di malattia, è tornare a sudare nel vento senza paura di riprendere l’influenza, considerando il vento per quello che è: aria fresca, aria nuova, che spazza via le polveri sottili di questa città, in modo che non ci sia l’obbligo delle targhe alterne, aria che cambia il volto di ciò che stai osservando e spesso ti rimanda alla linea dell’orizzonte.
Se avessi saputo farlo allora. Se fossi stato pronto per guarire…
Siamo in macchina. La mostra fotografica al Forma è stata come ce l’aspettavamo. Troppo cara e troppo scarna. Voleva stupire, con tutti quei Cocks, che Mapplethorpe sapeva fotografare alla grande, ma di cui, forse, pochi capiscono il senso.
Serena ha osservato le luci. Luce dura. Luce morbida. Luce fredda. Ma stai davvero controllando le luci o mi vuoi fare impressione? Perché io sto cominciando a sentirmi un tantino in imbarazzo davanti a tutti questi cazzi, e la tua diplomatica noncuranza mi sembra stonata.
In macchina incontriamo solo semafori rossi. Siamo un po’ silenziosi. Io non so cosa dirle, ma vorrei dirle qualcosa per non tornare al discorso di qualche giorno fa.
Invece, parla lei.
«Non era male, la mostra. Mapplethorpe mi è sempre piaciuto. Ah, non le ho detto che l’intervista uscirà dopodomani. Le mando il giornale, se mai. Ho trovato una sua foto su Internet, e ho usato quella. Però mi sarebbe piaciuto fargliela io. Sa una cosa? Dovrebbe farsi crescere il pizzetto, sarebbe un po’ più fotogenico».
«Ah, grazie, un complimento ben riuscito. Fa sempre piacere riceverne, eh!».
Lei ride. La tensione sembra svanita, ma entrambi sappiamo di averla soltanto nascosta per un po’. Accendo l’autoradio. Cambio convulsamente canzoni e CD dai comandi che ho al volante.
«Lasci questa. Mi piace, Vasco».
Mi sembra che lo faccia apposta, adesso.
Quanti anni hai, bambina? Quanti me ne dai, satsera. Certo che però non sei la prima. E di certo no, non sei la più serena…
Non vedo l’ora che questa canzone smetta. Non vedo l’ora di lasciarla alla fermata del tram. Non vedo l’ora che finisca questa giornata grigia, non vedo l’ora di dormire.
«La sento un po’… come dire? distaccato».
«No, no. Sono solo un po’ stanco».
«Certo, stanco. Si dice sempre, no?».
«…»
«Si può fermare lì avanti? Vede? Là, dove c’è quel piccolo parcheggio un po’ nascosto. Vorrei fumarmi una sigaretta giù dalla macchina. Vedo che lei non fuma».
Faccio come chiede. Ho solo un po’ paura che mi si avvicini. Ho paura di desiderarlo senza poterlo fare.
Quando mi fermo, lei accende la sigaretta in auto. Abbassa il vetro e non si preoccupa di me, né del fatto di avermi obbligato a parcheggiare solo per poter scendere dall’auto. Io non protesto, ma la sua aggressività mi lascia perplesso e contrariato.
«Il mio nome l’ho preso in prestito. L’ho preso da mia nonna, sa? E la sa un’altra cosa? Ci vorrebbe una canna adesso».
«Fuma canne?».
Sono stupito, ma lo dico con un’aria naturale. Faccio anche finta che la storia del nome mi sia passata indenne.
«Le canne curano».
«Curano da cosa?».
Sono interessato. Devo tirarle fuori le parole con le pinze. È la prima volta che me ne preoccupo, che mi preoccupo dei sentimenti di un’altra persona.
«Me lo vuole dare un bacio? Vuole, vero?».
«No, io…».
Mi accarezza il viso, mi guarda con i suoi occhi grandi e verdi. Non so cosa dicano quegli occhi, sono incredibilmente sfuggevoli. Mi viene vicino, e io da vicino sento il suo respiro che sa di fumo e chewing-gum insieme. Mi bacia, e mi accorgo che è più esperta di me. Che quel discorso sul fatto che i ragazzi di oggi sappiano tutto era vero al cento per cento. Io mi eccito e la cosa mi disgusta. Mi viene voglia di prenderla e mettermela sopra, e ci penso anche un po’ prima di decidere che devo staccarmi da lei o farò solo una cazzata da cui non si può tornare indietro. E forse è già troppo tardi. Lei l’ha fatto per uno scopo preciso. Io sono solo un vigliacco.
Scende dall’auto. Scendo anch’io. Provo a far scendere anche la mia eccitazione. È una cosa complicata.
La raggiungo, lei è di spalle.
«Sai, dottor Zeta, ci ho messo un bel po’ a trovarti. Hai cambiato nome nel frattempo, vero? Sei un codardo. L’ho sempre saputo, del resto».
«Serena, mi dispiace. Mi dispiace per Ingrid, non potevo immaginare che sarebbe arrivata a tanto».
Fruga nella borsetta. Io penso che stia cercando un’altra sigaretta e mi viene voglia di chiederle di darmene una. Mi girerà un po’ la testa dopo tanto tempo, ma non sono mica un ragazzino, posso sopportare almeno questo.
Invece è un attimo. In un attimo mi ritrovo con una pistola puntata alla tempia. Una Beretta nera a cui toglie la sicura con il pollice, come se niente fosse. Basta un clic, Serena, un solo clic e io sono morto. Ti sarai vendicata. Tua madre sarà vendicata.
«Come ti sembra? Com’è la vita appesa a un filo, bastardo? Ti fa tremare? Ho letto i suoi diari, li ho trovati tra la roba che mia nonna voleva buttare. Credevi di poter diventare un altro con un nome qualsiasi? Credevi di dimenticarti di Ingrid, di me, di quella cosa inutile che non hai mai voluto vedere? Eccomi qua, eccomi, sono bella vero? Assomiglio a lei, per fortuna. E non a un grassone patetico che si sarebbe fatto sua figlia».
Comincia a piangere e la mano le trema. Sobbalza e abbassa lo sguardo. La Beretta può sparare da un momento all’altro. Ma io capisco le sue parole. E capisco che questa vita non mi interessa più granché.
Non posso disarmarla. Non è come nei film. Non ci riesco, sono agghiacciato. Non ho mai avuto i riflessi pronti. E lei è lì davanti, con un dolore che non potrà mai darle sollievo. Con un dolore che non si può risolvere e per questo vuole ucciderne il seme.
Alza di nuovo il capo, si calma. Smette di sobbalzare e abbassa la pistola. Mi guarda impaurita, i suoi occhi sono ancora più grandi e l’iride più verde. Le lacrime hanno lasciato dei solchi che sembrano rughe. Si punta la pistola alla tempia e chiude gli occhi.
Comincio a piangere nell’aria. Cerco di non farlo notare alla ragazza ics. Lei è un po’ offesa. E non sa cosa accadrà tra di noi questa sera. Questa sera che ha il velo, anche se Milano non ha nebbia. Questa sera che è anche un po’ un dono, e lo sarà per entrambi.
Lo sarà per entrambi, ragazza Ics.
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