Io e il dottor Zeta, la ragazza Ics ed io
Zeta #8
In 19 Gennaio 2023 da Debora BorgognoniMi sarebbe piaciuto studiare Psicologia. Un insegnante dovrebbe sempre studiarla. Anche io avrei potuto studiare, non mi è mai stato negato, però non ne avevo voglia. Avevo l’ansia di dimostrare qualcosa. Qualcosa di pratico, di sostanzioso, che si può dimostrare solo col denaro.
Forse non sono mai cambiato da allora. Perché anche adesso sono qui a comprare qualche ora del tempo di una donna; ostento il mio denaro come una subdola prova della forza che non ho mai avuto.
Psicologia e denaro. Chi vincerà la partita? Chi vince molte battaglie non è detto che trionferà alla fine. Prendiamo ad esempio Napoleone. L’eroe ottocentesco, il Generale carismatico, l’Imperatore intransigente. Cosa aveva di così diverso dagli altri uomini? In fondo ha solo creduto in se stesso sopra ogni cosa, si è amato sopra ogni cosa. Non ha guardato né a destra né a sinistra, si è messo un bel paraocchi e ha proseguito dritto. Ci fosse stato pure un muro, lui avrebbe trottato senza avanzare, contro quell’ostacolo, perché non sapeva fare altro. E del resto così ha fatto, ha proseguito ininterrottamente perché perdere non era contemplato. Chi può prendersi la briga di affermare che sia stato un bravo statista? Eppure Napoleone ha riscritto la Storia.
Diciamo che io, come lui, non mi sono mai perso in visioni troppo ampie, o meglio lui l’ha fatto, eccome!, voleva possedere il mondo. Anch’io l’avrei voluto, il mondo, ma la mia pigrizia mi ha impedito certe manovre. La volontà, invece, è quella ottusa chiarezza che abbiamo in comune. Quel trottare sempre soli e sempre dritti senza guardarsi troppo intorno. Quello che sfugge in questi casi è proprio la personalità degli altri, e quindi è inutile ora parlare di psicologia. E la sua vittoria è ancora troppo lontana.
Mi chiamano dottore ma mi sa tanto di presa per il culo. Eppure lo tengo come un’apposizione inventata a un nome inventato. Più che mistero provoca forse ilarità.
Eh, già. Questi due giorni sono una rivelazione. Ti guardi allo specchio e la tua unicità è lì pronta. Bella o brutta, simpatica o cattiva, la dai per certa e te ne fai vanto. Ed essendo tua, la valorizzi quanto più puoi. Chi è bello non deve fare granché, l’intelletto è un surplus, chissenefrega dell’intelligenza. Nessuno dei belli lo ammette, ma poi basta un foruncolo che pensano a un intervento chirurgico per asportarlo. Nei migliori dei casi la giornata è rovinata. Ma non perché i belli siano stupidi, non credo più agli stereotipi. Solo perché nell’uomo si creano delle priorità inconsce.
Chi è brutto deve essere almeno simpatico. Io, invece, non essendolo e non riuscendoci nemmeno a suon di pratica, ho cercato di provocare mistero.
Ma quanto la faccio lunga! Sono uno sfigato, punto. Me la sono creduta per pietà di me stesso e adesso sono perso al largo, senza una forma precisa, in una barca che manco so perché uso per viaggiare, e la scusa che mi sono dato, di amare le sfide, mi sa di storia presa in prestito, trita e ritrita che non se ne può più.
Se avessi continuato la facoltà di Psicologia, adesso saprei capire la ragazza ics. Avrei capito ieri Marina. E avrei capito subito Serena. Perché lei, i segnali me li ha lanciati. L’ha fatto con acume, credendo forse che ne possedessi un po’ anch’io, e i segnali erano nell’aria. Solo che io non ho saputo coglierli.
Il tavolino del bar balla leggermente. Mi dà un po’ ai nervi. Mi danno ancora più ai nervi le battute del cameriere che dice: «Con sotto un pacco da cinquanta non balla più». Complimenti per l’originalità. Chapeau.
Serena mi guarda di sfuggita, mi è di fronte. Ha già tirato fuori dalla borsa il suo registratore portatile e l’ha posizionato ben in vista tra di noi. Ha in mano una penna Bic con la quale si ticchetta i denti incisivi superiori, cosa che le stampa sul volto una sorta di sorrisino beffardo. Ha una cartellina rossa con un block notes a quadretti, ma dubito che lo userà, visto che registrerà tutto. Però, sembra che avere in mano la penna e quel block notes le dia più sicurezza. Le crei uno scudo da usare contro la mia presenza.
“Come è nata la sua passione, come ha cominciato a vivere di questo, i suoi primi lavori, i suoi due libri…”. Una giornalista senza anima, alla prima esperienza, che annaspa senza convinzione alla ricerca di qualcosa di intelligente da dire. Non credo nemmeno che ascolti fino in fondo le mie risposte. E come previsto, non si prende la briga di scrivere niente.
Del resto, mi rendo conto immediatamente che sono un monologhista del cazzo. Non faccio nulla per metterla a suo agio. Mi vanto del mio successo. Sono un pavone grasso e vecchio che crede di essere migliore di tanti altri pavoni. Perché? Forse perché sono qua seduto a un tavolo con una ragazza bellissima che mi usa come cavia? Per quel conto in banca che si gonfia solo perché non so nemmeno come spendere i miei soldi?
Le scappa il primo sbadiglio. La cosa mi umilia. La prendo come un codice d’onore che non va profanato, e l’averlo fatto mi ferisce. Ordino altri due caffè con arroganza e il cameriere mi guarda come guarderebbe uno stronzo qualsiasi.
Ogni volta che sto per cadere, sventolo ai più deboli la mia autorevolezza. La sventolo a un esercito del nulla che è l’unico che può seguire questo Napoleone sgangherato: i miei studenti, i miei animali e i camerieri dei bar.
Il caffè non arriva, nonostante i miei sguardi minacciosi, che vengono di certo colti e proprio per questo ignorati. Perdo anch’io attenzione alle domande di Serena; le chiedo continuamente di ripetere, che non si è spiegata bene, che non ho capito. Lei mi chiede se dobbiamo fermarci un po’, e riprende a ticchettarsi i denti con la penna. Non ci giurerei, Serena, ma credo di farlo apposta. Perciò, fermarci adesso mi sembra una vendetta senza finale. E le vendette senza finale sono inutili; spargere sangue senza ottenere conquista è una cosa inutile. Non sono mica Napoleone.
«Benissimo. Allora le faccio l’ultima domanda, poi potremo parlare un po’ senza registrare». Il suo sguardo è cambiato. Ha persino richiuso la cartellina rossa e rimesso il tappo alla Bic. Cosa ti metteva in imbarazzo, Serena? Perché improvvisamente sei più forte? Chiedimi pure, avanti, vediamo chi vincerà questa battaglia diplomatica, questa guerra senza sangue.
«Perché ha deciso di diventare insegnante?».
Tutto qui? Aspetto il seguito, ma non arriva. In compenso arriva il caffè, che mi sembra profetico, perché mi lascia altro tempo per capire se la domanda è davvero conclusa.
«È l’ultima? È questa l’ultima domanda?».
Non le sembra nemmeno opportuno rispondere, fa solo un leggero cenno del volto. O forse era un sorriso che sembrava un cenno.
«Credo di essere insegnante perché mia madre era insegnante. Era insegnante dentro e mi ha sempre consigliato di dare spazio a questo dono innato che lei diceva avessi. Non ho mai creduto, però, di averlo. Ma mi sono sempre fidato di mia madre più che di me stesso».
Spegne il registratore. Non mi chiede se c’è dell’altro o se voglio continuare il discorso. Non le interessa nulla di mia madre, non le interessa sviscerare l’argomento. Questa volta gliel’ho lanciato senza pavoneggiarmi, meritavo un bonus. Ma in fondo mi sto pavoneggiando ancora, se credo di meritare qualcosa.
«Anche mia madre era un’insegnante». Lo dice con rabbia trattenuta. La sento, ma la mia testa è in pallone e sto pensando ancora troppo a me stesso per capire lei.
Cosa insegnava?».
Sembra invasata, risponde alla mia domanda con un’espressione di dissenso. O è disgusto? «Mia madre ha commesso molti sbagli nella sua vita. Uno in particolare. Quando è arrivata in Italia non sapeva niente della vita. Noi ragazzi di oggi siamo più adulti, conosciamo tutto, almeno in teoria. Forse, questa teoria ci permette di guardare alle cose della vita senza grande stupore. Alla vostra epoca era un po’ più difficile. Nessuno ti diceva niente. Eri insegnante di te stesso».
In quell’istante, ammetto che mi stia passando per la mente che, forse, quel “mia madre era insegnante” non sia da prendere alla lettera.
«Lei era insegnante di se stessa e insegnante di professione…».
Ah, okay, adesso ci siamo.
«… Una cosa ancora più complicata, perché poi, in fondo, l’insegnante è come il poliziotto, deve sapere tutto, deve proteggere, deve dare incondizionatamente, e non può permettersi di avere un conto aperto con se stesso».
Sì, sono d’accordo, Serena. Ma non ti voglio interrompere. Mi hai catturato. E adesso dove mi stai portando?
«Lei insegnava agli altri quello che non sapeva e non poteva pretendere da se stessa. Era professoressa di Psicologia, pedagogica e filosofia alle scuole magistrali. Che assurdità, vero? Una professoressa per futuri professori. Di Psicologia, oltretutto».
Sto iniziando a guardarla con altri occhi. Cerco in lei una logica. So che c’è, ma non so vederla. Ho gli occhi bendati e provo a sforzare i miei sensi. Guardarla mi provoca turbamento: è il suo volto, quella benda che mi impedisce di osservare davvero.
«Mia madre è morta nel fiore dei suoi anni. Io sono cresciuta con i nonni. Mia nonna è italiana, mio nonno spagnolo, di Valencia. Vivevano in Spagna da trent’anni. Mia madre è nata in Italia ma di fatto è cresciuta là e ci ha rimesso piede da ragazza, per studio. I nonni hanno preferito non portarmi via dall’Italia perché avevo già cominciato le scuole elementari. Anche se l’hanno fatto per me e con sacrificio, io avrei preferito che avessero preso, ai tempi, un’altra decisione. La Spagna sarebbe stato un nuovo inizio per tutti e tre. Tanto mia madre non sarebbe tornata…».
Sento dei brividi, Serena. Mi stai spaventando. Vuoi solo sfogarti, vero? Sfogati, io ti ascolto, piangi pure se vuoi, ma finiamo questo caffè perché non ho il coraggio di sapere altro.
«Sa che le dico? Possiamo continuare un altro giorno. Rischio di mettermi a piangere come una bambina. Mi lasci la sua e-mail. Le invierò l’intervista per la revisione appena sarà pronta. E magari prima che esca sul giornale, ci possiamo fare un altro caffè. O una mostra al Forma questa volta, che ne dice?».
Un attimo. Aspetta la mia risposta. Non mi guardare spazientita. Devo decidere se vederti ancora o lasciarti andare. Non posso dirtelo senza esserne sicuro, perché una volta pronunciato il sì, con te non potrei più tirarmi indietro. Sarebbe troppo ammiccante quel sì, troppo diabolica quella tentazione, troppo fragile la mia volontà.
«La mail è questa», e le segno intanto l’indirizzo sul tovagliolino di carta del bar. «E per il resto… Sì, dai, vada per il Forma e per il caffè».
Usciamo dalla metropolitana senza guardarci. La ragazza ics ha le guance un po’ rosse. Io ho un terribile mal di schiena ma cerco di trattenere il dolore. Mi arrangio come riesco e ora mi riprometto che l’esperienza della metropolitana sarà isolata: meglio pagare lo ZTL.
Sulle scale, però, mi esce un grugnito, e la ragazza ics si gira con un’espressione preoccupata. Sarà preoccupata per me o si starà rendendo conto che uscire con un uomo obeso di cinquant’anni potrebbe essere un tantino svilente per una giovane donna? Ma cosa diavolo starà pensando di me? Questa volta mi interessa. Questa volta vorrei saperlo.
Torniamo verso Brera e queste strade mi fanno sentire a casa. C’è nell’aria una familiarità inaspettata, perché ti sorprende anche se è ovvia. Quando arriva dopo un disagio non palesato ti sorprende sempre, e ti riscalda anche un po’.
Non so perché, ma mi metto a pensare a Marina, a quello che starà facendo adesso. Le ho dato qualche giorno di ferie. Due, perché la scuola è chiusa, e altri due perché ieri mi sentivo generoso. Ma no, che generoso, tendo sempre a giustificare la mia indole egoista e opportunista. Io non voglio vederla per qualche giorno, stop. Devo digerire una cena che non sapevo di dover mangiare; che tutto sommato era ovvia, ma che ha sostituito un digiuno rigeneratore. Quella cena è stata tossica.
Ieri la osservavo, e, dopo un bel po’, lei ha deciso di non sfuggirmi con lo sguardo. L’ha trattenuto dignitosamente, avrà fatto una fatica immensa. Perché Marina non è egocentrica, sa eclissarsi molto bene, quando serve.
«Cazzo, sono le sette, se dio vuole. Alleluia! Oggi non passava più. Dai un giro di chiave alla porta e aiutami con questi aggeggi infernali. Devo fare un po’ d’ordine o non ci capirò più niente».
Lei guarda l’orologio. Io ho pensato a tutto, e prenderla in giro non mi piace. Mi sforzo di tener fede alla promessa fatta a me stesso stamattina, prima che arrivasse a scuola, si sedesse al suo ufficio e aprisse la porta agli studenti svogliati e sbadiglianti. Sono passate dieci ore. Per dieci ore lei è stata ignara dei miei progetti e di questi pensieri innocenti che mi hanno riempito la testa. Innocenti ma decisivi.
Adesso la guardo e mi dico che dovrei parlarle subito. È lì senza una vera espressione, senza passione, coi suoi capelli ricci un po’ scarruffati e quella ricrescita nera che necessita di colpi di sole, nella sua camicetta bianca che le cade un po’ sulle spalle perché le sue spalle sono troppo piccole rispetto al corpo, e quella gonna che riesce a portare con grazia. Si vede che è abituata a indossare gonne e scarpe col tacco.
«Marina, senti, lasciamo perdere l’attrezzatura e l’ordine. Volevo parlare un po’ con te, magari anche spiegarti perché ho acquistato tutte queste tele».
«Parlare con me? Davvero? Ho fatto qualcosa? Ci sono problemi, dottor Zeta?».
«Ma no, Marina, certo che no. Anche se devo ammettere che ultimamente ti vedo un po’ assente».
«Assente io?».
Parla, dai, quell’io dice molte cose. Sono io che sono strano, vero? Dimmelo e basta, non pensarlo, non stamparlo sulla tua faccia come un immenso punto di domanda che non vuoi consegnare a me.
«Non parlo di lavoro. Parlo di te».
«Non la seguo».
«È difficile seguirmi se nemmeno io sto dove sto andando. Ma, senti, ho messo in fresco una bottiglia di vino bianco francese, viene dall’Alsazia, è un Pinot Bianco, non se ne trovano molti di vitigni di Pinot Bianco. Ne beviamo un sorso?».
La sua espressione è paragonabile a una serie infinita di puntini di sospensione.
«Va bene, ma solo un bicchiere, che poi devo guidare».
Apro il vino e annuso il tappo. Lei guarda di nuovo l’orologio. Decido di non farci caso. Ha detto che è in auto, no? Non deve prendere i mezzi di trasporto, quindi non ha orari e non devo chiederle nulla. Se ha qualche problema sarà lei a rendermelo noto.
Verso il vino nel mio bicchiere, lo annuso e lo verso anche nel suo. «Prosit».
«Ecco, dottor Zeta! Come ho potuto non capire?». Sembra sollevata e la sua voce ha una tonalità più alta. Però io mi preoccupo. Cosa avrà capito? «Cosa?».
«Come cosa? È il suo compleanno! È domani, giusto, il primo giugno!».
«No, Marina. Li compio il primo luglio», e il suo viso si smolla improvvisamente. «Ancora un mese da quarantanovenne, non farmi invecchiare prima del tempo», ma anche questo molle tentativo di sdrammatizzare la sua uscita non funziona. Sorride in modo forzato e forse non capisce il perché di questo brindisi privato.
«Scusi la convinzione, credevo proprio che… Ma, allora…».
La interrompo io. «Volevo solo fare due chiacchiere con una donna intelligente. Con un’amica. Ci conosciamo da molti anni ormai e possiamo dire di essere amici».
Lei sorride appena e beve il vino. Non parla. Aspetta.
«Dove ti piacerebbe andare qualche giorno? Un viaggio, intendo, non ti piacerebbe?».
«Con lei, dottor Zeta?».
«No, o sì, anche… Non so».
«Ah, scusi la gaffe, mi sembrava strano che volesse dire di farlo insieme… In effetti un viaggio lo vorrei fare. Vorrei tornare in India».
«India? Giusto, mi piacerebbe mangiare indiano domani».
Lei rimane in silenzio e mi fissa. Non capisco la sua espressione. O lei è brava a nascondere le emozioni, o io dovrei fare un corso accelerato di comprensione dell’essere umano.
Poi parla, abbassando leggermente gli occhi. Guarda ad altezza mento. «Domani devo prenotarle un tavolo in quel ristorante famoso di via Solferino? Mi ha parlato di viaggi per scegliere un ristorante? Dunque, un tavolo per quanti…?».
La guardo perplesso. Forse comincio a capire. Forse voleva parlarmi dell’India e io non ho nemmeno avuto voglia di farle raccontare. La sua voce sembra contrariata, diplomatica ma annoiata. Sembra stanca di quest’uomo che le fa perdere tempo, che le lancia un mucchietto di domande solo per avere compagnia. Davvero non so ascoltare, non so vedere, non so provare?
«Se ci andassimo insieme potresti raccontarmi dell’India».
Diventa rossa. Si passa la mano sulla guancia e poi non sa più dove metterla. Allora afferra il bicchiere e beve un sorso microscopico.
«Domani è l’ultimo giorno di lavoro, poi ho il week-end a disposizione per il mio ragazzo. Mi porta al mare».
Me lo dice così. Dice no senza dirlo.
«Certo, il tuo ragazzo. Perché non dovresti avere un ragazzo?». Lo dico ad alta voce ma avrei voluto pensarlo soltanto. Lei sembra mortificata e io non riesco nemmeno a guardarla in faccia. Mi sembra di detestarla.
«Vai pure adesso, anzi, ti do due giorni in più di ferie. Domani non venire, puoi sbrigare le ultime cose anche da casa, in remoto, così non badiamo alle formalità della domanda per le ferie, che non me ne frega un cazzo. Piuttosto, se mai, domani mi fai il piacere di chiamarmi quel ristorante, ma te ne darò conferma».
Prende la giacca e se ne va, non sento nemmeno quello che dice. Prima che lei esca, però, riesco a guardarla e aspetto che lei mi dica qualcosa.
Dimmi pure quello che pensi. Dimmi che sono arrogante per averti chiamata amica, io che me ne sono sempre fregato della tua personalità, io che mi credevo il centro del tuo mondo e non ho nemmeno capito che avevi un fidanzato. Dimmi che questo patetico tentativo di capirti serve solo a me stesso, che con te non c’entra un cazzo, non sei tu quella da modellare nella mia mente. Tu sei un mezzo per esaltare me, per sentirmi migliore. L’amore degli altri mi rende un uomo positivo. E la loro sofferenza mi rende potente. Queste due cose insieme mi elevano di un gradino. Ma dillo, che è solo nella mia testa. Che non provi amore né tantomeno sofferenza. Che mi vedi un pidocchioso uomo di mezza età che non ha mai avuto confronti, che vuole volare troppo alto solo per avere il mondo. Non per abbracciarlo e condividerlo, non per perdersi nel vuoto. Dillo, che il mio unico intento è godere della possessione, è riflettermi nella totalità. Dillo, che hai sempre saputo di non avere un valore specifico, perché la scala di valore ero io, e io decidevo quanto valevi in rapporto a me. Ci ho provato, ma non ci riesco ancora. Capirlo non significa cambiare, Marina. Significa solo trovarsi soli, dopo aver perso un po’ anche se stessi.
Non lo fa, non parla. E i suoi tacchi si disperdono giù dalle scale del palazzo; sono battiti che scandiscono questo tempo e questa pioggia che bagna Milano.
Non penso nemmeno alle due figure di merda che ho appena fatto. A quella con Marina e alla telefonata di oggi alla ragazza ics, nella quale con molta nonchalance le ho offerto dei soldi per una serata con lei. Domani mi dovrò scusare. Con Marina non ci sono riuscito, ho lasciato quel “perdonami” nell’aria, mortificando lei, detestando lei. Devo chiedere scusa se voglio guarire.
Cammino davanti a lei, com’è mia abitudine. Penso a queste cose e trascuro ancora una volta i pensieri della ragazza ics. Guarire è un lavoro. Per caso le ho chiesto se le piace la cucina indiana? Conoscendomi no, non l’ho fatto. Decido di guardare il suo volto, il suo abito, la sua energia. Decido di farmi accompagnare da lei. Di farle conoscere queste strade milanesi. Di frizzare nell’aria insieme al suo sorriso, che io oggi ho voglia di conoscere.
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