
SPECIALE QUARANTENA . StorieDiVirus
Io e Wilson
In 11 Aprile 2020 da Chiara Menardo«Al prossimo giro al supermercato prendo un sedano rapa, lo appoggio su un bicchiere e lo chiamo Wilson».
Indifferente a tutto, non dice nulla. Come se mi fossi aspettata una qualsiasi risposta.
Addento la carota con cui ho chiacchierato finora: non è educato mangiare i propri interlocutori, ma ho fame e lei non ha dimostrato di avere grandi argomenti di conversazione.
Trenta giorni, sola. Due uscite a settimana per scorte di cibo e alcool e poi di nuovo qui, in trentacinque metri quadrati: camera da letto, cucina abitabile, bagno. Un terrazzino minuscolo, ci sta a malapena il bidone dell’immondizia, con una vista mozzafiato sui cortili dei palazzi qui intorno. Finestre e terrazzi, asfalto e tegole. Antenne e parabole.
Mi pento ogni giorno di non aver preso il gatto quando me ne hanno offerto uno. Almeno adesso non parlerei con le carote.
O con il vaso di ranuncoli. O con me stessa, allo specchio.
E lo so che c’è lo smart working, e le riunioni in videoconferenza che mi tengono impegnata in questo periodo: mi pettino, mi trucco, infilo una camicia sopra i pantaloni del pigiama. Sono semplicemente perfetta, una Mary Poppins dalla cintola in su.
Ogni mattina alle otto mi alzo, doccia, caffè, mi sistemo davanti all’armadio aperto e passo in rassegna il guardaroba. Scelgo la maglia carina, rimetto su i pantaloni del pigiama o, quando sono particolarmente in vena, infilo la tuta. Alle nove sono davanti al PC a smaltire pratiche, email e telefonate. Intorno alle dieci e un quarto alzo gli occhi e impreco: mi sembra di aver lavorato almeno tre ore, invece la giornata è appena all’inizio.
Poi ci sono le riunioni in videochiamata. Si parla di lavoro o si parla di virus, mascherine, di morti. Allegria.
… Neanche un prete per chiacchierar…
Canto in cucina seduta davanti al PC mentre batto sui tasti e carico dati. Mi faccio una tisana: dieci minuti dopo, corro in bagno. Torno al computer, guardo l’ora: è sempre troppo presto. Altri dati, le telefonate. Verifica la pratica tal dei tali, vuoi? Oh, ma hai visto che per strada non c’è nessuno? Eh, qui restiamo chiusi in casa almeno altri due mesi, ho finito la farina, non si trova più. Ancora due mesi così e io il mio compagno lo uccido con l’idraulico liquido. Eh, la convivenza forzata è difficile. Beata te che vivi da sola.
Che fortuna, vivere sola in isolamento da un mese, oh sì sì. Chiedo conferma alla scimmia di peluche che ho fatto sedere sul divano dopo averla tirata fuori da una scatola sepolta al fondo dell’armadio. La scimmia è d’accordo con me: siamo fortunate a essere sole.
A mezzogiorno di solito mi concedo una pausa per sbattere cinque minuti la fronte contro il tavolo. Se il tempo seguisse i miei ritmi anziché i suoi, sarebbero almeno le otto di sera e invece il tempo fa quello che pare a lui e non ha fretta. Passa come gli pare: lento.
Facebook, Twitter, Instagram, Tik Tok, le chat di Whattsapp: mi sono iscritta a qualsiasi cosa, almeno sbircio sui social. Chiamo mia madre tre volte al giorno: prima di tutto questo ci sentivamo una volta alla settimana.
Dovrei apparecchiare per bene la tavola. Bisogna darsi un ordine, fare le cose come una volta, continuo a ripetermi mentre mangio il tonno dalla scatoletta appoggiata su uno strofinaccio da cucina per non sporcare la tovaglia. Tanto sono da sola, e domani sarà uguale a oggi che è uguale a ieri. Chi se ne frega di darmi un ordine, di fare le cose come prima di questo? Che importanza ha, adesso?
Ordine. Autodisciplina. Meditazione. Positività.
E un bel porca zozza non ce lo vogliamo mettere, che da trenta giorni sto in compagnia di me stessa, delle carote e di una scimmia di peluche?
Tutti i giorni scorro la rubrica del telefono cercando qualcuno da chiamare. Con le amiche ci diamo degli appuntamenti, l’aperitivo in videochiamata ma manca la sorpresa, l’imprevisto dell’incontro fortuito per strada, i visi e gli occhi, qui manca tutto.
E ogni giorno resisto all’impulso di chiamare lui. Ci siamo lasciati due anni fa, ma lui è stato il più importante. Adesso sta con una collega, mi dicono, ma per me era importante. Chissà come sta vivendo questi momenti, chissà se mi pensa, se sta litigando con lei e rimpiange i nostri tempi. Avrei potuto non essere sola, adesso.
Tutto quello che è stato è diventato importante. Le amiche delle medie, i ricordi delle settimane bianche, il primo bacio, l’esame di maturità, i ricordi delle estati dai nonni. Il passato è diventato l’unica certezza che ho. Qualcosa ho vissuto, una volta. Chissà, tra qualche anno, cosa ricorderò di tutto quest’oggi che non finisce mai.
Adesso è uguale a ieri, che è uguale a domani. Minime variazioni su un unico tema: i muri e i mobili, lo smart working, due notiziari, la scimmia seduta sul divano e i film alla sera. I peli delle gambe che crescono, i capelli sempre più simili a un covone di fieno, la ricrescita ogni giorno più a vista.
Dopo pranzo c’è sempre il caffè, sempre il computer, sempre la musica. Una carota, un pezzo di sedano, i pacchi di patatine che compro e divoro in due giorni. Il vino, la birra, la noia. Io e me stessa, da sole, a guardarci allo specchio e parlare di vento e filosofia.
Non c’è modo di sapere quando arriverà la fine di questo presente immobile.
Quando potrò tornare sulla metro? Andare a mangiare una pizza seduta a un tavolo chiacchierando con persone in carne e ossa che posso toccare, abbracciare? Ho voglia di qualcuno con cui litigare a qualche centimetro dalla faccia per poi alzarmi di scatto, prendere la porta e correre via, per strada o dovunque. Voglio dormire sotto le stelle. Non l’ho mai fatto, non so come sia ma mi manca. Passo in rassegna tutto quello che mi sono persa e non mi perdono. Un giorno andrò, farò, vedrò. Un giorno, presto, non so quando ma mi addormenterò guardando il cielo di notte, su un prato, una spiaggia, ovunque ma non qui, tra questi muri che conosco a memoria.
Pesto sui tasti del computer e non penso, digito dati e compilo schede, schiaccio invio avanti il prossimo. Non guardo più l’orologio, potrebbero essere le due, o le quattro, o le sei di lunedì, venerdì oppure domenica. Io non lo so che giorno è, e nemmeno mi interessa. Fotocopie di giorni e di tempi con minuscoli scarti, impercettibili cambi di scena, il film della sera o la maglia del mattino.
È un oggi che non finisce più.
Adesso lo chiamo. O aspetto che mi chiami lui.
Intanto Wilson il sedano rapa, sullo scaffale del supermercato, mi aspetta.
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