
Le opinioni superbe . SUPERBIA
Il limite e l’infinito, perché…
In 31 Gennaio 2022 da Redazione Seven BlogGennaio, il limite, l’infinito. Ci confrontiamo con questo tema di opposti e scriviamo raccontini superbi!
da Debora
Acciaio, Quoziente Intellettivo, Lei
«Tolga le scarpe. Le scarpe, ho detto».
La voce femminile dal tono perentorio e freddo mi mette a disagio. Le tolgo. Sono scarpe nuove, lucide, nere. Le ho indossate qualche ora prima per l’occasione. Guardo le punte e mi dico che è una liberazione levarle, e nel frattempo mi chiedo se i calzini di nylon saranno ben puliti. Lei è solo una voce e un ologramma confuso. La vedo ma la luce mi acceca, non colgo le forme, le espressioni, non capisco chi sia. Nessun odore, nessun senso. Mi chiedo che fine abbiano fatto i sensi, a proposito, quando abbiamo smesso di usarli, quando tutto è diventato così sterile.
«Ora tolga i pantaloni». Mi imbarazza la richiesta.
«I pantaloni?».
«È abbastanza chiaro l’ordine? Tolga i pantaloni».
Parla proprio a me, non è un ordine registrato. Non usa l’infinito come il tenente Kura. Sono io il suo interlocutore.
Tolgo i pantaloni. Sono leggeri, neri anch’essi, due tasche vuote, nessuna cintura. Li piego, perdo tempo, li appoggio a terra accucciandomi.
«La maglietta. Tolga anche quella».
Il mio spogliarello non vede la parola fine. Mi sfilo la t-shirt in tessuto lucido con un piccolo logo sulla spalla. Piego anche questa, con calma, ma lei non pare spazientirsi.
Irrigidisco i muscoli delle spalle e delle braccia, poi rifletto su questa cosa. Perché? Vorrò mica farle colpo? Fare colpo su un ologramma?
«Stia fermo». Compare una piccola luce. «E ora si volti completamente. Fermo così. Bene. Ora ruoti a destra, stia in posizione per cinque secondi – ma conti nella mente, mi raccomando – e subito dopo ruoti a sinistra e fermo per altri cinque. Mi ha capito?».
Dico che ho capito ed eseguo gli ordini. Poi la voce riprende a parlarmi. «Signor Coslovich, ora è pronto per la seconda fase del programma: il trattamento neurovitale».
Hanno smesso di chiamarmi Ingegnere. Signor Coslovich. Sono diventato un’entità inferiore a loro.
Il silenzio ora sbatte contro l’acciaio della stanza. Sono semi nudo e già stanco, la luce mi acceca, comincio a sentire freddo. Rimango immobile, un bravo cagnolino in attesa degli ordini del padrone. Cosa c’è intorno a me per farmi capire se voglio davvero questa cosa? Entrare in questo sistema impersonale e inumano? Nulla c’è. Acciaio, luce. I miei abiti ancora a terra, piagati alla bell’e meglio. Sull’acciaio davanti a me vedo la silhouette sbavata di un uomo giovane e forte, che non sa cos’ha scelto, un’ombra di sé stesso e del mondo. Mi pare qualcuno che non riconosco più.
Alle mie spalle, una folata di vento mi destabilizza qualche secondo, mentre il suono frusciante della porta che apre automaticamente le pareti mi fa capire che è entrato qualcuno. Qualcuno in carne e ossa.
«Signor Coslovich. Può vestirsi».
Non perdo tempo, mi vesto senza voltarmi. La voce è la stessa di prima, quella dell’ologramma che mi ha fatto spogliare. E ora ha finito con me. Ha già valutato la mia obbedienza, ed è pronta ad avere il mio cervello, il mio Quoziente Intellettivo superiore alla media che di certo sarà utile a qualche scopo umano.
Mi sono sempre chiesto come l’avrei utilizzato. E la scelta ricade ora su altri. Su un ologramma che mi ha ordinato di spogliarmi e di rivestirmi.
Porta i tacchi. Lo capisco dal rumore dei passi sul pavimento di acciaio. Si avvicina, qualche odore ce l’ha, impercettibile da cogliere. Chiudo gli occhi per qualche istante, così posso concentrarmi meglio sull’olfatto.
Sì, sa di agrumi: arance, forse, e spezie. Un odore aspro, al contrario della sua voce. La sua voce ha una leggera inflessione francese. È musicale, le erre sono fricative uvulari, eppure producono una vibrazione che apre il suono delle altre lettere. E il tono è caldo, basso e calcolato.
«Siamo pronti per la fase due, Signor Coslovich. Gli operatori procederanno con il test per valutare le sue facoltà cognitive. Non sarà invasivo, non si preoccupi. Nei prossimi giorni verrà la parte più importante del programma. Avremo modo di parlarne».
E i tacchi si fermano. Le décolleté nere, i tacchi a spillo. Le gambe composte, strizzate nelle calze scure, e più su, la vita sottile cinta da una gonna a tubino. La blusa leggera, bianca, una spalla scoperta su cui non cadono i capelli rossi, tutti raccolti sull’altro lato. La percorro lentamente, e cerco di rimanere freddo nel registrare le sue labbra lucide, le efelidi intorno al viso, il naso all’insù, gli occhi verdi. Le rughe di espressione, marcate intorno agli angoli della bocca (è abituata a ridere?) e tra le sopracciglia (pensa troppo?), lo sguardo fisso e austero e gli occhi brillanti e scaltri. Registro.
«Signor Coslovich, segua l’assistente vocale. E benvenuto al Neo Esercito».
da Fabio
Prospettive
Il freddo. Il cielo stellato. Il silenzio. La notte.
Guardo sopra.
Non è stato facile arrivare qui.
Una linea sotto il collo.
Una linea sotto i polpacci.
1.435 mm.
Non so quando sia successo ma è successo: la vita è una questione di linee da superare o da non superare, che si vogliono superare, che non si vogliono superare, che ti costringono a superare, che ti costringono a non superare.
La paura dei pensieri per ingannare l’attesa, il senso di colpa che assale, la vergogna della scelta, il perdono da invocare in parole buone per il giornale.
L’attesa che sale, il tempo sembra essersi fermato come se avesse smesso il suo incidere inevitabile e inesorabile nella sua misura, nei suoi multipli, nel suo conteggio.
Il sudore e gli errori, i ricordi e i rimpianti.
Le vibrazioni assenti, impercettibili, leggere, più forti, sempre più forti, inevitabilmente insopportabili, oramai inevitabili.
La curva, il rettilineo, la linea di acciaio sotto il collo, la linea di acciaio sotto i polpacci. 1.435 mm.
La scarica sopra, la luce alla mia sinistra.
L’infinito.
da Manuela
Il limite di Lizzy
Stavolta Lizzy ha deciso di fottere.
Perché fotti, Lizzy? Perché?
Lizzy corre i ricordi. Un barlume balordo le si incaglia sul pelo pubico e guizza di venere stuprata. È così che vede i flash.
Flash senza un vero Magic-Sound.
Lei sul un divano di lino in una posizione strana. Le ginocchia che afflosciano un cuscino, le gambe contro lo schienale, i piedi in alto, e anche le natiche-farfalle-aperte in alto. I palmi delle mani a terra, la fronte che sfiora il tappeto, e gli occhi che contano le mosche cadute. Poi arriva una sonda, qualcuno che gliela ficca, e lei che ulula sudiciume rassicurato dentro.
Questo mai più.
Lizzy afferra il pennello. Ha la forma del pene-ben-fornito. Lizzy è un uomo, e stavolta è lui-diventato che vuole fottere. La forza le viene dallo sterminio di mille balene, e dal rutto di uno che si mangiò la tartaruga marina mille anni fa. Lizzy fotte con il pennello-pene stretto tra le mani. E la mano fa il bravo mestiere.
Per prima cosa, Lizzy si dirige verso Bocca-di-Rana-la-ficcatrice, le infila la punta dell’arma dentro. Così non potrai più gracchiare le tue stronzate sull’importanza della remissione. Poi chiude in una valigia i repentagli-di-vita-subita, e infilza dentro buste nere, tre bambole nate solo per essere battezzate di culo. Lizzy vuole fottere pure quelle. Nelle buste di plastica non avranno più ossigeno, e possono covare la morte per soffocamento che è sempre stato il loro sogno.
D’un tratto la stanza è lustrata di ogni cosa.
A tutto c’è un limite, cara. Bocca-di-Rana-la-ficcatrice, è la più ostica a farsi fottere.
Come fai a parlare con un pennello-pene ficcato dentro?
Fa male, eppure parlo lo stesso. Fa male tutto, cara Lizzy, eppure puoi vivere lo stesso lo schifo di sempre.
Ma vaffanculo a te!
E dove andrai a sbattere con le prostitute?
In fondo alla via c’è una casa vuota.
Bocca-di-Rana-ficcatrice ride. Hai vissuto tante vite lasciandoti in fondo al cassetto, non potrai mai fottere.
Era il mio posto preferito, lì nessuno poteva vedere come mi violentavo.
E il divano di lino me lo lasci, cara?
Sì, puoi mangiarci le fiamme.
Lizzy che sfila un cerino dalla tasca, lo gratta contro il muro, e la fiamma divampa e brucia.
A tutto c’è un limite.
da Gianluca
Verso l’infinito e oltre
“Verso l’infinito e oltre” era il motto di Buzz Lightyear, uno dei protagonisti del film di animazione della Pixar, Toy Story.
Quel film è un capolavoro, l’idea è geniale ma questa frase lo è ancora di più.
L’ho capita troppo tardi.
All’epoca desideravo solo strappare quel ranger spaziale dalle mani di mio figlio e schiacciarlo sotto i piedi per mettere fine a quella litania.
Sentivo quella frase un milione di volte al giorno e maledicevo il giorno in cui qualcuno aveva regalato a mio figlio un personaggio di quel film che andava in loop su qualsiasi dispositivo avessimo in casa.
Quel tormentone ci seguiva dappertutto grazie al dvd portatile.
Era diventato un incubo, me lo sognavo pure di notte.
Per me quella frase non aveva senso. La odiavo.
Mi sbagliavo.
Era proprio quello il messaggio che i geni della Pixar volevano farci arrivare: l’immaginazione dei bambini non ha limiti.
A quell’età credi davvero che si possa andare oltre l’infinito.
Quando staccai la testa, le braccia e le gambe a quel pupazzo e lo buttai nella spazzatura con la bava alla bocca, non avevo colto la sublime metafora: dobbiamo sempre spingerci oltre i nostri limiti, soprattutto nel momento in cui diventiamo adulti.
da Giorgio
L’amore infinito
Ti amo, gli disse lei dall’altro capo del mondo.
E lui sorrise. Quanto?, le chiese.
Di un amore infinito come le gocce che riempiono tutti i mari.
Allora, raggiungimi.
Devo imparare a nuotare.
Allora, aspetterò, rispose lui.
Ti amo, gli disse lei dall’altro capo del mondo.
E lui sorrise. Quanto?, le chiese.
Di un amore infinito come gli atomi nel cielo che circonda la Terra.
Allora, raggiungimi.
Devo imparare a volare.
Allora, aspetterò, rispose lui.
Ti amo, gli disse lei dall’altro capo del mondo.
E lui sorrise. Quanto?, le chiese.
Di un amore infinito come le stelle che illuminano la notte.
Allora, raggiungimi.
Ho paura della notte.
Allora, aspetterò, rispose lui.
Ti amo, gli disse lei dall’altro capo del mondo.
E lui sorrise. Quanto?, le chiese.
Di un amore infinito come l’universo al quale apparteniamo.
Allora, raggiungimi.
Ho paura di perdermi.
Allora, aspetterò, rispose lui.
Ti amo, gli disse lei dall’altro capo del mondo.
E lui sorrise. Quanto?, le chiese.
Di un amore infinito come i secondi che scandiscono il tempo dall’inizio dei tempi.
Allora, raggiungimi.
Devo imparare a contare.
Allora, aspetterò, rispose lui.
Ti amo, gli disse lei dall’altro capo del mondo.
E lui sorrise. Quanto?, le chiese.
Di un amore infinito come la vita che vorrei passare insieme a te.
Allora, raggiungimi.
Devo imparare a vivere.
Allora, morirò, rispose lui.
da Caterina
Il senso dell’Eterno
Era una giornata storta, più storta delle altre. Troppa rabbia e troppo rancore erano il companatico delle sue azioni, così si guardava attorno nella casa solitaria sperando in una pur piccola consolazione, un’illuminazione che gli aprisse gli occhi sul senso della vita.
I giorni, i minuti, i secondi si erano affastellati in un insieme di attimi inutili, vuoti, ripetitivi e fastidiosi. Al colmo dell’impazienza infilò un giubbotto e uscì per strada. Camminava a passo svelto guardandosi attorno alla ricerca di un fiore, di uno sprazzo di natura, una quisquilia che deviasse il suo interesse il più lontano possibile dal suo chiodo fisso: il senso dell’Eterno. Soffiava un vento gelido di tramontana e in cielo non c’era una nube, tutto quell’azzurro sapeva d’infinito. Un tempo era stato un buon pittore, poi aveva buttato alle ortiche tele e pennelli, ripensare a quei giorni allentò il suo disagio psichico e un principio di calma interiore si fece strada nel suo cuore. I pensieri iniziarono a scivolare più lievi, meno aguzzi.
Quasi senza accorgersene, arrivò sino a una piccola chiesa di campagna, non amava le chiese come luogo di culto, erano per lui soltanto oggetti d’arte in cui il desiderio umano del divino aveva prodotto opere a volte eccelse.
Notò che la porta era socchiusa e la curiosità lo spinse a entrare. Nella semioscurità intravide un giovane seduto al primo banco, sentì che recitava il rosario in latino, il recto tono echeggiava nell’ambiente angusto come se un’intera orchestra stesse suonando una sinfonia. Pensò ai mantra dei buddisti, al muezzin che chiama alla preghiera, a se stesso di fronte a una tela e non vide nessuna differenza tra chi cerca la calma interiore in una chiesa o in una moschea, oppure in una sinagoga, per strada o sotto un ponte.
In lui non c’era più rabbia, ma solo la tristezza di non essere più capace di superare il limite delle sue emozioni per poter tornare a conquistare l’infinito.
Stiamo progettando una rivista letteraria per aiutare le nuove voci a emergere. Abbiamo sempre la stessa vision: diffondere cultura e talento.
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